Nota AIFA 96
(aggiornata il 22/02/2023)
Farmaci inclusi nella Nota AIFA:
– colecalciferolo
– colecalciferolo/Sali di calcio
‐ calcifediolo
La prescrizione a carico del SSN dei farmaci con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D” nell’adulto (>18 anni) è limitata alle seguenti condizioni:
Prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D nei seguenti scenari clinici :
indipendentemente dalla determinazione della 25(OH) D
- persone istituzionalizzate
- persone con gravi deficit motori o allettate che vivono al proprio domicilio
- donne in gravidanza o in allattamento
- persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate non candidate a terapia remineralizzante (vedi nota 79)
previa determinazione della 25(OH) D (vedi algoritmo allegato)
- persone con livelli sierici di 25(OH)D <12 ng/mL (o <30 nmol/L) e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia intensa, mialgie, dolori diffusi o localizzati, frequenti cadute immotivate)
- persone asintomatiche con rilievo occasionale di 25(OH)D <12 ng/mL (o <30 nmol/L)
- persone con 25(OH)D<20 ng/mL (o <50 nmol/L) in terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D
- persone con 25(OH)D<20 ng/mL (o <50 nmol/L) affette da malattie ch epossono causare malassorbimento nell’adulto
- persone con 25(OH)D<30 ng/mL (o 75 nmol/L) con diagnosi di iperparatiroidismo (primario o secondario)
- persone con 25(OH)D<30 ng/mL (o 75 nmol/L) affette da osteoporosi di qualsiasi causa o osteopatie accertate candidate a terapia remineralizzante per le quali la correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia *
*Le terapie remineralizzanti dovrebbero essere iniziate dopo la correzione della ipovitaminosi D.
Per guidare la determinazione dei livelli di 25OH vitamina D e la conseguente prescrizione terapeutica è possibile fare riferimento alla flow-chart allegata (allegato 1)
Background
L’impianto del precedente documento, generalmente riconfermato, è stato integrato dai risultati di studi pubblicati negli ultimi 3 anni oppure in seguito alla decisione di accogliere i suggerimenti da singoli clinici o società scientifiche
La vitamina D viene prodotta per effetto sulla cute dei raggi ultravioletti di tipo B (lunghezza d’onda 290 – 315 nm) che trasformano un precursore, il 7 deidrocolesterolo (la pro-vitamina D), in pre-vitamina D e successivamente in colecalciferolo (vitamina D3). La vitamina D può essere quindi depositata nel tessuto adiposo o trasformata a livello epatico in 25OH vitamina D (calcidiolo o calcifediolo) che, veicolata da una proteina vettrice, rappresenta il deposito circolante della vitamina D. Per esercitare la propria attività biologica il 25OH colecalciferolo deve essere trasformato in 1-25 (OH)2 colecalciferolo o calcitriolo, ligando naturale per il recettore della vitamina D. La sede principale della 1-idrossilasi è il rene ma questo enzima è presente anche nelle paratiroidi, ed in altri tessuti epiteliali.
La funzione primaria del calcitriolo è di stimolare a livello intestinale l’assorbimento di calcio e fosforo, rendendoli disponibili per una corretta mineralizzazione dell’osso. In ambito clinico, esiste una generale concordanza sul fatto che la vitamina D promuova la salute dell’osso e, insieme al calcio (quando indicato), contribuisca a proteggere dalla demineralizzazione (in particolare negli anziani).
INDICATORI DI CARENZA DI VITAMINA D: LIVELLI DI 25(OH) VITAMINA D, LIVELLI DI RISCHIO, SOGLIE DI INTERVENTO
Nonostante le metodiche di dosaggio presentino importanti problemi metodologici, il livello della 25(OH) vitamina D (25OHD) circolante è il parametro unanimemente riconosciuto come indicatore affidabile dello status vitaminico (Ross AC et al 2011, Holick MF et al 2011, Adami S et al 2011, NHS 2018, NICE 2016). Il dosaggio del calcitriolo – 1,25(OH)2 vitamina D – andrebbe riservato a condizioni particolari di interesse specialistico.
Diversi organismi scientifici hanno prodotto raccomandazioni per l’esecuzione del dosaggio della 25OHD.
I documenti concordano sulla inappropriatezza dello screening esteso alla popolazione generale (LeFevre ML et al 2015, Khawati LM et al 2021, USPSTF 2021, Bertoldo F et al 2022).
Le indicazioni all’esecuzione del dosaggio differiscono in parte tra i vari documenti di consenso: esiste sostanziale concordanza sul concetto che la determinazione dei livelli di 25(OH)D dovrebbe essere eseguita solo in presenza di fattori di rischio per carenza e quando risulti indispensabile nella gestione clinica del paziente.
Secondo i documenti prodotti da organismi regolatori, il dosaggio non dovrebbe essere inserito nella lista degli esami di routine e dovrebbe essere riservato ad un ristretto numero di pazienti con sintomi persistenti di profonda astenia, mialgie, dolori ossei diffusi o localizzati sospetti per osteomalacia o con predisposizione alle cadute immotivate (NHS 2018, NICE 2016, NIH 2022). L’indagine dovrebbe essere eseguita anche nei candidati ad una terapia remineralizzante, ai pazienti potenzialmente affetti da malassorbimento, a chi assume cronicamente alcune categorie di farmaci interferenti con il metabolismo della vitamina D (quali antiepilettici, glucocorticoidi, antiretrovirali, antimicotici, colestiramina, orlistat etc.) e a chi presenta un paratormone elevato.
A scopo esemplificativo è stato elaborato un diagramma di flusso (vedi allegato 1).
Nel definire i livelli di normalità e le soglie di intervento/livelli da mantenere per la 25(OH)D esistono alcune divergenze e raccomandazioni comuni.
Il rapporto Vitamin D and health del Scientific Advisory Committee on Nutrition britannico identifica in 8–12 ng/mL (20–30 nmol/L) il limite al di sotto del quale aumenta il rischio di sviluppare problemi scheletrici da carenza di vitamina D. Tali livelli non rappresentano quindi un indicatore di malattia ma di rischio aumentato di “poor muscoloskeletal health”.
Alcuni studi (Jolliffe et al 2018, Martineau et al 2017) evidenziano che la prevenzione in ambito respiratorio è osservabile solo in presenza di 25(OH)D <10 ng/mL (25 nmol/L), livelli ai quali corrispondono anche le condizioni sintomatiche di dolore – debolezza muscolare.
Gli IOM (Institutes of Medicine) statunitensi identificano nel livello di 25(OH)D pari a 20 ng/mL (50 nmol/L) il limite oltre il quale viene garantito un adeguato assorbimento intestinale di calcio e il controllo dei livelli di paratormone nella quasi totalità della popolazione (IOM 2011). L’intervallo dei valori compresi tra 20 e 40 ng/mL è stato definito come “desirable range” in base a motivazioni di efficacia, garantita oltre i 20 ng/mL, e sicurezza, non essendovi rischi aggiuntivi al di sotto dei 40 ng/mL (Fuleihan Gel–H et al 2015).
I documenti di consenso elaborati dalla maggior parte delle società scientifiche raccomandano come target 30 ng/mL (75 nmol/L) nei soggetti con diagnosi di osteoporosi (Cesareo R et al AME 2018, LeBoff MS et al 2022, Bertoldo F et al 2022).
La definizione di “insufficienza” per livelli da 20 a 30 ng/mL, tuttora adottata nella maggior parte dei sistemi di refertazione, si traduce frequentemente in trattamenti inappropriati e non è scientificamente accettabile.
Sintetizzando i dati citati, il livello soglia per iniziare una terapia in persone sane asintomatiche (per le quali il dosaggio sarebbe inappropriato) dovrebbe essere 10–12 ng/mL; la terapia sostitutiva dovrebbe essere iniziata al di sotto dei 20 ng/mL nei pazienti sintomatici, nei portatori di condizioni con malassorbimento e nei pazienti trattati con farmaci inibitori della vitamina D. In pazienti con osteoporosi e nelle donne gravide è preferibile la supplementazione per raggiungere il livello di 30 ng/mL
SICUREZZA
L’attenzione ai problemi di sicurezza legati all’assunzione di vitamina D si focalizza solitamente sull’ipercalcemia: questa è relativamente infrequente e non esiste una correlazione stretta tra livelli di vitamina D e di calcemia raggiunti. Nei case report descritti sono spesso implicate assunzioni concomitanti di prodotti da banco, i cosiddetti «integratori» per i quali non esiste sempre la consapevolezza di assumere farmaci veri e propri. L’aumento della calciuria con possibile incremento del rischio di litiasi è un ulteriore possibile effetto avverso, legato in genere alla assunzione contemporanea di supplementi di calcio.
Dai trials di Sanders KM e di Smith H emerge, inoltre, come il trattamento con dosi elevate di vitamina D possa aumentare il rischio di cadute o di fratture senza raggiungere livelli di 25(OH)D definiti «tossici».
Da diversi studi osservazionali emerge con chiarezza come le curve che mettono in rapporto i livelli di 25(OH)D e l’incidenza di eventi (ivi compresa la mortalità) abbiano un andamento «a V» con incidenza di eventi che dai livelli minimi di 25(OH)D scende fino a raggiungere un intervallo di rischio minimo (in genere tra 20 e 45 ng/mL) oltre il quale il rischio di eventi risale, a testimonianza del fatto che aumentando il livello di 25(OH)D non si ottiene una maggiore protezione ma un rischio di eventi aumentato (Melamed M et al 2008, Michaëlsson K et al 2010).
Un invito alla prudenza e a non oltrepassare i livelli fisiologici di 25(OH)D viene anche da altri studi osservazionali che individuano un rischio aumentato di cancro prostatico per livelli elevati di 25(OH)D (Gao J et al 2018) ed un rischio aumentato di cancro pancreatico con l’aumento dell’assunzione di livelli di vitamina D (Waterhouse M et al 2015).
La conclusione si riassume nell’invito a non superare quegli intervalli di 25(OH)D ritenuti fisiologici e propendere per dosi minori (800–1000 UI die) ritenute più sicure (Rizzoli R 2021).
Evidenze disponibili
L’apporto supplementare di vitamina D è uno dei temi più dibattuti in campo medico, fonte di controversie e di convinzioni tra loro anche fortemente antitetiche.
Gli studi “storici” hanno concluso in modo decisivo a favore dell’efficacia della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento di rachitismo ed osteomalacia (Mozolowski W 1939).
Studi randomizzati successivi e le meta–analisi che li includono depongono a favore di una modesta riduzione del rischio di frattura delle dosi di vitamina D3 >800 UI/die (specialmente se in associazione ad un apporto di calcio >1,2 g/die). Tra i vari studi inclusi nelle meta–analisi il peso maggiore spetta a quelli realizzati in ospiti di strutture protette mentre considerando solo popolazioni non istituzionalizzate, viventi in autonomia, la riduzione di rischio legata alla somministrazione di vitamina D risulta non statisticamente significativa (Trivedi DP et al 2003, Bischoff–Ferrari HA et al 2005, Bischoff–Ferrari HA et al 2012, Bolland MJ et al 2014, Zhao JG et al 2017, USPSTF 2018, Bolland MJ et al 2018). Tale effetto protettivo sul rischio di frattura negli ospiti delle strutture protette è la spiegazione più accreditata per giustificare il lieve effetto sulla riduzione di mortalità riscontrato in una revisione Cochrane nelle persone trattate con vitamina D (Bjelakovic G 2014).
Nel contesto dell’ampio studio VITAL – su una popolazione sana non selezionata sulla base di fattori di rischio per frattura – 2.000 UI giornaliere di vitamina D3 non riducevano il rischio di frattura contro placebo (LeBoff M et al 2022). L’ampiezza del campione studiato (25.871 persone sane maschi >50 aa, femmine >55 aa) ha consentito di valutare l’effetto della vitamina D in sottogruppi di elevata numerosità con diversi livelli di 25(OH)D. Il colecalciferolo somministrato per 5,3 anni è risultato inefficace nella riduzione del rischio di frattura non solo nelle persone con 25(OH)D >30 ng/mL ma anche nei sottogruppi con bassa 25(OH)D (401 soggetti con 25OHD <12 ng/mL, 2.161 <20 ng/mL, 4.270 <25 ng/mL). Questi dati di chiara inefficacia del trattamento con colecalciferolo in persone con bassi livelli di 25(OH)D, mettono in discussione il trattamento sulla base del solo riscontro di ipovitaminosi. Il dato conferma l’inutilità e l’inappropriatezza di ricercare condizioni di ipovitaminosi in assenza di indicazioni clinico–anamnestiche. A conclusioni analoghe sono giunti i ricercatori dello studio DO–HEALTH (Bischoff–Ferrari HA et al 2020) realizzato in Europa su una popolazione più anziana (2157 soggetti >70 aa): 2.000 UI di colecalciferolo per 3 anni, con o senza l’aggiunta di acidi grassi omega 3 e/o il supplemento di un piano di attività fisica, non sono state in grado di modificare parametri di rischio cardiovascolare o ridurre il rischio di fratture non vertebrali.
Diversi studi osservazionali hanno riportato in varie situazioni patologiche (cardiopatie, neoplasie, malattie degenerative, metaboliche, respiratorie etc.) peggiori condizioni di salute in popolazioni con bassi livelli di vitamina D: questo ha portato a valutare con opportuni studi sperimentali l’efficacia della supplementazione con vitamina D nella riduzione del rischio di diverse patologie (soprattutto extrascheletriche). I risultati di studi clinici randomizzati (RCT) di elevata numerosità non hanno confermato tali ipotesi e hanno delineato in oncologia e cardiologia aree di documentata inefficacia della supplementazione con vitamina D (Lappe J et al 2017, Khaw KT et al 2017, Zittermann A et al 2017, Manson JE et al 2019, Urashima M et al 2019, Barbarawi M et al 2019, Virtanen JK et al 2022, Neale RE et al 2022). Nonostante l’impiego di dosi relativamente elevate le popolazioni trattate non presentavano vantaggi in termini di mortalità o eventi prevenuti rispetto ai trattati col placebo. Solo in una analisi post–hoc non prevista nel protocollo iniziale, di dubbio valore metodologico, sono stati identificati diminuzione della mortalità per cancro e ridotta incidenza di malattie autoimmuni. La riduzione del rischio valutata su 32 condizioni autoimmuni ha raggiunto una significatività statistica borderline con P=0,05 sulla popolazione nel suo insieme mentre nel sottogruppo con 25OHD <20 ng/mL non sono emerse differenze significative. Secondo i risultati ottenuti sarebbero stati necessari 2000 anni/persona di supplementazione con vitamina D per evitare un caso tra le 32 diagnosi di malattia autoimmune.
La ridotta mortalità per cancro osservata nel contesto dello studio VITAL (Chandler PD et al 2020) rappresenta un esito secondario risultato da un’analisi post hoc su un campione privo della potenza statistica necessaria; va considerato quindi un dato preliminare in conflitto con altri risultati sulla insorgenza di neoplasie (Manson JE et al 2018) e sulla mortalità per cancro (Virtanen K et al 2022, Neale RE et al 2022) conseguiti su campioni più numerosi.
VITAMINA D E COVID-19
Nonostante i dati epidemiologici che sembravano legare il contagio e la gravità del Covid alla carenza di vitamina D e nonostante i risultati provenienti da studi osservazionali e loro meta-analisi, l’efficacia della vitamina D nella lotta al Covid è stata smentita dagli studi progettati e condotti in modo corretto.
Un trial su 240 pazienti ricoverati non ha mostrato un effetto protettivo della vitamina D nei confronti di durata del ricovero, gravità e mortalità da Covid (Murai et al 2020).
Due importanti studi (studio CORONAVIT su 6.200 adulti e studio CLOC su 34.601 adulti), pubblicati nel settembre 2022, hanno documentato l’inefficacia di diverse dosi di vitamina D e dell’olio di fegato di merluzzo (titolato a 400 UI di vitamina D) nella protezione dal Covid e dalle infezioni respiratorie in genere.
Al momento attuale non esistono elementi per considerare la vitamina D un ausilio importante per la lotta contro il coronavirus.
Particolari avvertenze
Le principali prove di efficacia antifratturativa sono state conseguite utilizzando colecalciferolo che risulta essere la molecola di riferimento per tale indicazione. La documentazione clinica in questa area di impiego per gli analoghi idrossilati è molto limitata e mostra per il calcitriolo un rischio di ipercalcemia non trascurabile (Trivedi DP et al 2003, Bischoff–Ferrari HA et al 2005, Bischoff–Ferrari HA et al 2012, Avenell A et al 2014).
L’approccio più fisiologico della supplementazione con vitamina D è quello della somministrazione giornaliera con la quale sono stati realizzati i principali studi che ne documentano l’efficacia; diversi autori di studi con esito sfavorevole hanno ipotizzato che la somministrazione utilizzata (100.000 UI in monodose mensile) potesse essere responsabile dell’insuccesso dello studio (Scragg et al 2018). Al fine di migliorare l’aderenza al trattamento il ricorso a dosi equivalenti settimanali o mensili è sostenuto solo da studi di farmacocinetica (Chel V et al 2008). In fase iniziale di terapia, qualora si ritenga opportuno ricorrere alla somministrazione di dosi elevate (boli), si raccomanda che queste non superino le 100.000 UI, perché per dosi superiori si è osservato un aumento degli indici di riassorbimento osseo, e anche un aumento paradosso delle fratture e delle cadute (Smith H et al 2007, Sanders KM et al 2010). Una volta verificato il raggiungimento dei livelli desiderati, essi possono essere mantenuti con dosi inferiori, eventualmente anche in schemi di somministrazione intervallati con una pausa estiva.
La somministrazione parenterale, sempre evitando le dosi oltre 100.000 UI, andrebbe riservata ai casi di malassorbimento per i quali le dosi orali non siano risultate efficaci.
Si rappresenta infine l’importanza della segnalazione delle reazioni avverse che si verificano dopo la somministrazione dei medicinali, al fine di consentire un monitoraggio continuo del rapporto beneficio/rischio dei medicinali stessi. Agli operatori sanitari è richiesto di segnalare, in conformità con i requisiti nazionali, qualsiasi reazione avversa sospetta tramite il sistema nazionale di farmacovigilanza all’indirizzo
https://www.AIFA.gov.it/content/segnalazioni–reazioni–avverse
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Allegato 1. Guida alla misurazione della 25OHD e alla successiva prescrizione della Vitamina D