I lavoratori esposti a fumi e polveri di berillio possono sviluppare sia una forma di polmonite acuta, sia una malattia sistemica (cioè che coinvolge l’intero organismo) cronica, ma a prevalente interessamento polmonare, chiamata “berilliosi cronica”.

Il berillio è un elemento chimico bivalente presente in natura in forma di silicato e alcune sue varietà, come l’acquamarina e lo smeraldo, sono pietre preziose ben conosciute fin dall’antichità.

Nell’industria è utilizzato per formare leghe metalliche caratterizzate da ottime doti di durezza, resistenza meccanica e resistenza ad agenti corrosivi.

Le principali fonti di rischio di esposizione sono l’estrazione del berillio dal “berillo” (il silicato presente in natura), la produzione di leghe con rame, alluminio, magnesio e zinco, la produzione di alcuni tipi di lampade fluorescenti, la produzione di alcuni tipi di ceramica, il rivestimento e la produzione di tubi Roentgen. Il maggior impatto sull’ambiente lavorativo è comunque a carico di industrie ad alta tecnologia, come quelle aerospaziali.

La forma acuta insorge per esposizione ad elevate quantità di berillio e sicuramente è molto rara nei paesi sviluppati dove esiste una buona attenzione alla prevenzione degli infortuni.

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La berilliosi acuta si manifesta con congiuntivite, tracheite, rinofaringite, broncopolmonite, fino addirittura all’edema polmonare acuto. Esiste anche una forma cutanea con comparsa di lesioni pruriginose papulari, papulo-vescicolose o anche solo eritematose; in relazione alla persistenza della sostanza all’interno della cute, sono possibili anche lesioni ulcerative vere e proprie. Obiettivamente può essere riscontrata, tachicardia, dispnea, cianosi, crepitazioni all’auscultazione del torace. Alla radiografia del torace si evidenziano infiltrati diffusi o localizzati, che potrebbero erroneamente essere interpretati come di natura infettiva; spesso si evidenzia ipossiemia e riduzione dei volumi polmonari.

La patogenesi è di natura immuno-allergica, quindi riconosce fattori propri genetici ed immunitari del soggetto associati ad intensità e durata dell’esposizione. Si ritiene che la fagocitosi delle particelle di berillio ad opera dei macrofagi inneschi una serie di fenomeni a cascata con produzione di citochine infiammatorie che sostengono la reazione; nei casi estremi sono le stesse citochine che, aumentando la permeabilità dei capillari polmonari, provocherebbe l’edema polmonare acuto. La terapia consiste nel supporto ventilatorio e generale, se necessario e nell’uso di corticosteroidi; ovviamente è imperativo l’allontanamento dall’esposizione.

La berilliosi cronica può insorgere subito dopo una forma acuta ma più frequentemente insorge dopo alcuni mesi o anche anni dall’esposizione. E’ anch’essa molto rara: si calcola che insorge nel 2-5% dei lavoratori esposti al berillio.

Granuloma peribronchiale non caseosico in pz con berilliosi cronicatratto da Wikipedia .org (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Chronic_berylliosis_(8054314225).jpg

Granuloma peribronchiale non caseosico in soggetto con berilliosi cronica;
tratto da Wikipedia .org (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Chronic_berylliosis_(8054314225).jpg)

Il bersaglio principale della forma cronica è il polmone e la lesione tipica è costituita dal granuloma simil-sarcoidosico non caseoso, istologicamente in pratica indistinguibile dal granuloma sarcoidosico. E’ formato da cellule epitelioidi, macrofagi e cellule giganti plurinucleate e può essere ritrovato anche nella milza, nei muscoli, nel miocardio, nella cute, nei linfonodi, nelle ghiandole salivari, nei reni e nell’osso, in sostanza quasi dappertutto.

In realtà si ritiene che la berilliosi cronica non sia altro che una malattia da ipersensibilità ritardata la cui espressione anatomo-patologica è il granuloma. Il berillio si comporterebbe da antigene o aptene venendo quindi processato dalle cellule APG (antigen presenting cell – cellule presentanti l’antigene); da queste verrebbe esposto come antigene nel contesto del complesso di istocompatibilità maggiore di classe II (MHC) e presentato al linfociti CD4+ T-helper.

Il risultato è una secrezione di citochine pro-infiammatorie nell’ambito di una proliferazione linfocitaria oligo-clonale con conseguente amplificazione della risposta infiammatoria. Sembrerebbe esista anche una predisposizione genetica dei soggetti con aplotipo HLA-DPB1 con un glutammato in posizione 69 della catena beta.

Accanto ad una sintomatologia respiratoria, per lo più tosse e dispnea da sforzo, sono presenti perdita di peso, artralgie e dolore toracico; può essere riscontrata epato-splenomegalia, dita a bacchetta di tamburo (clubbing), linfoadenopatia e persino i segni del cuore polmonare cronico per insorgenza di ipertensione polmonare.

All’esame radiografico del torace si evidenziano un aspetto patognomonico di fibrosi polmonare di tipo reticolare o micronodulare che può essere rilevato anche parecchio tempo prima della comparsa di una sintomatologia significativa.

L’esame spirometrico permette di evidenziare un deficit restrittivo o misto con riduzione della diffusione alveolo-capillare.
Il patch test al berillio è positivo, ma secondo alcuni autori non è sufficientemente standardizzato.

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La differenziazione tra berilliosi e sarcoidosi può essere fatta tramite il test di “trasformazione linfocitaria”; il test, consistente nel cimentare linfociti del sangue periferico o del BAL (lavaggio bronco-alveolare) con un sale di berillio, è positivo se si ha la proliferazione dei linfociti, indicando così che il soggetto è sensibilizzato o malato.

TERAPIA DELLA BERILLIOSI

Ad oggi non esiste una terapia sicuramente efficace per il trattamento della berilliosi cronica.

I corticosteroidi sono i farmaci più frequentemente usati in ragione dell’ipotesi patogenetica immuno-allergica, ma non è stata dimostrata una significativa efficacia nel modificare la storia naturale della malattia; in particolare si è riscontrata l’assenza di regressione della fibrosi polmonare (Current Treatment of Chronic Beryllium Disease”, Akshay Sood, J Occup Environ Hyg. 2009 December; 6(12): 762–765.).

In letteratura si trovano accenni all’uso di altri immunosoppressori, come l’azatioprina, ma ad oggi non mi risulta siano entrati nell’uso routinatio per il trattamento della berilliosi cronica; naturalmente l’allontanamento dalla fonte di esposizione è indispensabile.

BERILLIOSI COME MALATTIA PROFESSIONALE

La berilliosi fa parte delle “Nuove tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura” di cui al DM 9 aprile 2008 al n. 3: “Lavorazioni che espongono all’azione del berillio, leghe e composti” e per essa quindi vige la regola della presunzione di origine.

Cioè, accertata la presenza della patologia, accertata la sussistenza dell’esposizione professionale, l’INAIL è tenuta a riconoscerne l’origine professionale, quindi indennizzando il lavoratore per il danno subito.

Per inciso, il berillio è in grado di provocare altre malattie, riconoscibili anch’esse come malattie professionali ed anch’esse inserite nalla nuova Tabella del DM 9/04/2008: DERMATITE ALLERGICA DA CONTATTO, GRANULOMI CUTANEI, CARCINOMA DEL POLMONE.

Le patologie da berillio su PubMed


Il berillio è inserito dallo IARC tra le sostanze “cancerogene per l’uomo” al gruppo 1; da QUI il collegamento alla monografia IARC sul berillio.

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Pubblicato il 12/04/2013

Dott. Salvatore Nicolosi


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