Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – sentenza n. 7320 del 22 marzo 2013

… omissis …

Con sentenza del 5 novembre 2007 la Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Tivoli di rigetto della domanda di G.N. volta ad ottenere l’accertamento del suo diritto alla pensione di inabilità di cui alla L. n. 118/1971.

La Corte territoriale ha rilevato infatti che dalla certificazione dell’agenzia delle entrate risultava che i redditi della ricorrente, cumulati  con quelli del coniuge, superavano i limiti di legge stabiliti per ottenere il trattamento pensionistico richiesto. Ha osservato infatti che ai fini dell’accertamento del requisito reddituale per l’attribuzione della pensione di inabilità di cui all’articolo 12 della legge n.118 del 1971 doveva tenersi conto anche del reddito del coniuge dell’invalido secondo quanto stabilito dall’articolo 14 septies, quarto comma, della legge n. 33 del 1980, non potendo invece trovare applicazione la regola, stabilita dal successivo quinto comma dello stesso articolo 14 septies solo per l’assegno mensile di cui agli articoli 13 e 17 della legge n. 118 del 1971, dell’esclusione dal computo dei redditi percepiti da altri componenti del nucleo familiare dell’interessato. Secondo la Corte inoltre non avevano alcuna valenza abrogatrice di norme di legge la prassi o le circolari adottate dall’istituto previdenziale.

Avverso la sentenza propone ricorso la N. che ha anche depositato una memoria ex art 378 c.pc.. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze intimato non si è costituito. L’Inps ha depositato delega in calce al ricorso notificato, partecipando, poi all’udienza di discussione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

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1. La ricorrente censura la decisione della Corte d’Appello di Roma che le ha negato il riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità per difetto del requisito reddituale calcolato cumulando il reddito della stessa ricorrente con quello del coniuge. La N. osserva che l’Istituto previdenziale ha considerato per anni, ed  anche attualmente,  ai fini del calcolo del requisito reddituale per la pensione di inabilità, il solo reddito personale.

Rileva, inoltre, che l’esame dei lavori parlamentari relativi alla L n 33/1980 conferma la bontà di tale interpretazione. Osserva, infatti, che, in prossimità di scadenza dei termini per la conversione del decreto legge n 663/1979, vi era stato un ordine del giorno sottoscritto da sei deputati i quali facevano presente che per la pensione di inabilità era stato omesso l’inciso che escludeva dal computo il reddito percepito da altri componenti il nucleo familiare previsto per l’assegno e chiedevano l’impegno del governo ad affermare che anche per gli invalidi gravi il limite di reddito andava calcolato con esclusione dei redditi dei familiari . Rileva che nella stessa seduta il governo aveva accettato detta raccomandazione affermando che la proposta interpretazione si deduceva dalla ratio della legge.

La ricorrente sostiene, altresì, che in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa di riferimento doveva ritenersi che anche ai fini della pensione di inabilità occorrere, dare rilievo solo al reddito personale dell’invalido così come la normativa disponeva espressamente per il riconoscimento dell’assegno. In via gradata eccepisce la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art 14 septies, 5° comma, L. n. 33/1980 in relazione agli artt. 3, 29, 31, 32, 38 Cost.

2. Ritiene preliminarmente il Collegio che non ricorrano i presupposti per il sollecitato intervento delle sezioni unite sulla questione controversa, ove si consideri che le conclusioni espresse nelle decisioni di questa Corte numero 5003 e 4677 del 2011 – peraltro pienamente consapevoli dei difformi risultati interpretativi di cui alle sentenze indicate dalla ricorrente – costituiscono il risultato di una compiuta considerazione e valutazione delle variegate disposizioni normative succedutesi nel tempo e di una ricostruzione del relativo significato che appare essere la più aderente al loro dato testuale nonché alla complessiva “ratio” dell’intervento legislativo in questa specifica materia. Va aggiunto che i principi affermati nelle precitate decisioni sono stati condivisi da tutta la successiva giurisprudenza (vedi, fra tante, Cass.n 4806/2012; n 10276/2012; n 10658/2012) sì che può dirsi ormai superato il denunciato contrasto giurisprudenziale e consolidato l’orientamento riassumibile nei sensi di seguito indicati.

3. La questione portata all’esame della Corte va risolta tenendo presente la vicenda legislativa delle due prestazioni di assistenza – pensione di inabilità e assegno mensile – che vengono in considerazione nella presente controversia. Nel dettare una nuova disciplina delle provvidenze a favore dei mutilati e invalidi civili, la L. 30 marzo 1971, n. 118, previde la concessione – a carico dello Stato e a cura del Ministero dell’Interno – di una pensione di inabilità per i soggetti maggiori di 18 anni nei cui confronti fosse stata accertata una totale inabilità lavorativa (art. 12) e la corresponsione, per i periodi di incollocamento al lavoro, di un assegno mensile ai soggetti di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno, con capacità lavorativa ridotta in misura superiore a due terzi (art. 13). Le condizioni economiche richieste dalla legge per l’assegnazione di entrambe le descritte prestazioni erano le medesime: l’art. 12, comma 2, facendo riferimento a quelle stabilite dalla L. n. 153 del 1969, art. 26, e, a sua volta, l’art. 13, comma 1, prevedendo la concessione dell’assegno mensile “con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’articolo precedente”). Pertanto, considerando quanto previsto dall’art 26 della legge n. 153 del 1969 (norma, quest’ultima che stabilisce le condizioni economiche richieste per la pensione sociale), l’invalido, per aver diritto alla pensione di inabilità, come pure all’assegno mensile, non doveva essere “titolare di redditi, a qualsiasi titolo, di importo pari o superiore a L. 156.000 annue” (così il testo originario dell’art. 26 della legge citata). Successivamente il D.L. 2 marzo 1974, n. 30 (convertito nella L. 16 aprile 1974, n. 114), intervenne per elevare l’importo annuo della pensione di inabilità e quello mensile dell’assegno (art. 7), ribadendo (art. 8) che le condizioni economiche per le provvidenze ai mutilati e invalidi civili – e, quindi, tanto per la pensione di inabilità che per l’assegno mensile – “sono quelle previste nel precedente art. 3 per la concessione della pensione sociale” e, nel contempo, stabilendo (appunto nell’art. 3, dettato in parziale sostituzione della L. n. 153 del 1969, art. 26, cit.) che le condizioni economiche necessarie per la concessione della pensione sociale consistevano nel possesso di redditi propri per un ammontare non superiore a L. 336.050 annue, ovvero, in caso di soggetto coniugato, di un reddito, cumulato con quello del coniuge, non superiore a L. 1.320.000 annue.

Con il successivo intervento di cui alla L. 21 febbraio 1977, n. 29, articolo unico, (di conversione, con modificazioni, del D.L. 23 dicembre 1976, n. 850) i limiti di reddito di cui al D.L. n. 30 del 1974, art. 8, (che, come già detto, richiamava quelli previsti dall’art. 3, dello stesso D.L., per la concessione della pensione sociale, a loro volta aumentati, per effetto della L. 3 giugno 1975, n. 160, art. 3, a L. 1.560.000 per il reddito cumulato e a L. 505.050 per il reddito personale) furono elevati a L. 3.120.000 annui, ma esclusivamente (per quanto qui interessa) per la pensione di inabilità: testuale è, invero, il riferimento fatto dal legislatore “agli invalidi civili assoluti di cui alla L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 12”, mentre nessuna menzione era contenuta nella norma per gli invalidi parziali di cui al successivo art. 13. Per questi ultimi dovevano quindi, per il momento, ritenersi ancora vigenti i limiti reddituali previsti dal ripetuto D.L. n. 30 del 1974, art. 3, come modificati dalla L. n. 160 del 1975, art. 3; e, nel contempo, in difetto di una qualsiasi esplicita previsione in tal senso, o, quantomeno, di un sia pure implicito riferimento al D.L. n. 30 del 1974, art. 3, non vi era neppure spazio per una interpretazione del testo normativo che portasse ad argomentarne l’intento del legislatore di modificare, per la pensione di inabilità, la disciplina previgente, adottando come parametro di verifica del superamento del limite reddituale il (solo) reddito personale dell’invalido assoluto, ancorché coniugato. In definitiva, anche l’intervento legislativo in parola non incideva sul principio di sistema, per cui il limite reddituale andava determinato tenendosi conto del cumulo del reddito dei coniugi sia per la pensione che per l’assegno, mutando soltanto – ed esclusivamente per la pensione di inabilità – l’importo massimo da considerare ai fini della verifica del superamento (o meno) del suddetto limite. Evidentemente resosi conto dei limiti di ragionevolezza di una scelta che portava a raddoppiare, per la sola pensione di inabilità, il limite di reddito da prendere a riferimento, il legislatore, nel convenire il D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, con la L. 29 febbraio 1980, n. 33, aggiunse la disposizione dell’art. 14 septies, con la quale, nel mentre vennero ancor più elevati i limiti di reddito di cui al D.L. n. 30 del 1974, art. 8, portati a L. 5.200.000 annui rivalutabili annualmente (comma 4), contestualmente (comma 5) venne stabilito che, per l’assegno mensile in favore dei mutilati e invalidi civili di cui alla L. n. 118 del 1971, artt. 13 e 17, (l’art. 17, poi abrogato dalla L. 21 novembre 1988, n. 508, art. 6, disciplinava l’assegno di accompagnamento per gli invalidi minori di 18 anni), il limite di reddito da considerare era fissato nell’importo di L. 2.500.000 annue, anch’esso rivalutabile annualmente e “da calcolare con esclusione del reddito percepito da altri componenti del nucleo familiare di cui il soggetto interessato fa parte”.

4. Ritiene questa Corte che la norma in parola non possa essere interpretata nei sensi di cui alle sue recenti pronunce nn. 18825/2008, 7259/2009 e 20426/2010 (al cui orientamento è stato fatto richiamo nella memoria della odierna ricorrente), con le quali si è affermato che, dopo la introduzione dell’art. 14 septies citato, anche per la pensione di inabilità deve farsi esclusivo riferimento al reddito personale dell’assistito, ma debba, invece, condividersi il principio, espresso da un più risalente indirizzo (cfr, in particolare, Cass. nn. 16363/2002, 16311/2002, 12266/2003, 14126/2006, 13261/2007), secondo cui “Ai fini dell’accertamento del requisito reddituale previsto per l’attribuzione della pensione di inabilità prevista dalla L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 12, deve tenersi conto anche della posizione reddituale del coniuge dell’invalido, secondo quanto stabilito dalla L. 29 febbraio 1980, n. 33, art. 14 septies, comma 4, in conformità con i generali criteri del sistema di sicurezza sociale, che riconoscono alla solidarietà familiare una funzione integrativa dell’intervento assistenziale pubblico, non potendo invece trovare applicazione la regola – stabilita dallo stesso art. 14 septies, successivo comma 5, solo per l’assegno mensile di cui alla L. n. 118 del 1971 citata – della esclusione dal computo dei redditi percepiti da altri componenti del nucleo familiare dell’interessato”. Ciò per le seguenti ragioni. Come sopra accennato, l’intervento attuato dal legislatore con l’art. 14 septies, comma 5, è chiaramente inteso a equilibrare le posizioni dei mutilati e invalidi civili parziali a seguito dell’innalzamento del limite reddituale previsto – ma esclusivamente per gli invalidi civili assoluti – dalla L. n. 29 del 1977; significativo di tale intento è che per l’attribuzione dell’assegno è, bensì, preso a riferimento il solo reddito individuale dell’assistito, ma l’importo da non superare per la pensione di inabilità (comma 4) corrisponde a più del doppio di quello stabilito per l’assegno, ossia L. 5.200.000 annue a fronte di L. 2.500.000 annue (attualmente la divaricazione si è notevolmente ampliata in quanto, secondo le tabelle Inps, il limite reddituale stabilito per la pensione agli invalidi civili totali è quasi tre volte superiore a quello indicato per l’assegno mensile agli invalidi civili parziali a parità di importo mensile della prestazione). La norma, inoltre, rappresenta una deroga all’orientamento generale della legislazione in tema di pensioni di invalidità e di pensione sociale, in base al quale il limite reddituale va determinato tenendosi conto del cumulo del reddito dei coniugi (cfr Corte Cost., sent. nn. 769/1988 e 75/1991; cfr, altresì, Corte Cost., n. 454/1992, in tema di insorgenza dello stato di invalidità dopo il compimento del 65 anno) e, di conseguenza, non esprime un principio generale con il quale dovrebbero essere coerenti le disposizioni particolari. Del resto la sua stessa formulazione letterale, che fa menzione del solo assegno – fino a quel momento equiparato alla pensione di inabilità quanto alla regola del cumulo con i redditi del coniuge – non può che far concludere nel senso che la prestazione prevista per gli invalidi civili assoluti sia rimasta assoggettata alla ridetta regola del cumulo.

E difatti, anche successivamente, nella L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 12, (dal titolo “requisiti reddituali delle prestazioni ai minorati civili”) la distinzione tra le due prestazioni continua ad essere mantenuta, disponendo la norma che, con effetto dal 1 gennaio 1992, ai fini dell’accertamento, da parte del Ministero dell’Interno, della condizione reddituale per la concessione delle prestazioni assistenziali agli invalidi civili si applica il limite di reddito individuale stabilito per la pensione sociale, con esclusione, tuttavia, degli invalidi totali. Non può dunque condividersi l’avviso della ricorrente secondo cui l’abrogazione delle disposizioni legislative incompatibili, stabilita dalla ricordata L. n. 33 del 1980, art. 14 septies, comma 7, impedirebbe la sopravvivenza, per la sola pensione, della disposizione concernente il cumulo disposta dalla L. n. 153 del 1969; infatti l’abrogazione non riguarda direttamente quest’ultima norma, bensì le disposizioni legislative che vi avevano fatto richiamo ai fini dell’assegno mensile e che, come tali, risultavano in contrasto con l’espressa esclusione di tale cumulo. Sostanzialmente irrilevante risulta poi il richiamo ai lavori preparatori della L. n. 33 del 1980, atteso che gli ordini del giorno accettati “come raccomandazione” dal Governo non si sono poi tradotti in provvedimenti legislativi di contenuto contrario a quello esplicitato dalla normativa di riferimento (ed anzi, come detto, il successivo intervento di cui alla ricordata L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 12, si pose nel senso di quest’ultima); ed a fortiori privi di decisività – anche a prescindere dalle pur evidenti violazioni del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – risultano i richiami alle difformi prassi applicative adottate in sede amministrativa.

5. Infine, non può non rilevarsi che la L. n. 118 del 1971, art. 13, – che come sopra ricordato, disciplina l’assegno mensile di invalidità – è stato recentemente sostituito ad opera della L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 1, comma 35, (disposizione non tenuta presente nelle citate decisioni di questa Corte), il quale, testualmente, stabilisce che “agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è concesso a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di Euro 242,84 per tredici mensilità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’art. 12”. Si tratta, all’evidenza, di un intervento con il quale viene ripristinato il collegamento tra le due prestazioni assistenziali quanto alle “condizioni (comprese, quindi, quelle economiche) richieste per la loro assegnazione; ma il prendere a riferimento, a tal fine, le “condizioni stabilite per l’assegnazione della pensione di cui all’art. 12″, determinare cioè una equiparazione che si vuole modulata sulla disciplina propria della prestazione prevista per gli invalidi civili assoluti, è, di per sé, indicativo del fatto che tale disciplina, anche per quanto riguarda le condizioni reddituali rilevanti, è diversa da quella nel frattempo dettata (si ripete, con la L. n. 33 del 1980, art. 14 septies, comma 5) per l’assegno mensile, non avendo altrimenti senso, invero, una simile formulazione normativa qualora le condizioni reddituali richieste per la pensione di inabilità fossero le stesse previste per l’assegno e, dunque, si dovesse dar rilievo al solo reddito personale dell’invalido, ancorché coniugato, piuttosto che al reddito di entrambi i coniugi.

6. Deve, infine, rilevarsi l’infondatezza della prospettata questione di costituzionalità con riferimento a tutti i precetti costituzionali invocati. Con riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, posto che notevolmente diverso è l’importo del reddito previsto dall’articolo 14 septies della legge n. 33 del 1980 per gli invalidi civili totali e parziali (quello richiesto per la corresponsione della pensione di inabilità è quasi doppio rispetto a quello previsto per l’attribuzione dell’assegno mensile), il che vale ad escludere, nel regime introdotto con la suddetta disposizione di legge, un’identità di ratio nella tutela che si è voluta apprestare con le due provvidenze, evidentemente graduate in esito a una complessa valutazione delle situazioni di bisogno delle varie categorie, attuata dal legislatore tenendo conto di vari elementi concorrenti. Per quanto riguarda, poi, la asserita violazione delle norme costituzionali poste a tutela della famiglia, mette conto rilevare come l’attribuzione di un rilievo preclusivo dell’intervento pubblico al reddito familiare, di cui i singoli componenti beneficiano, discende dal riconoscimento, nel vigente sistema di sicurezza sociale, di meccanismi di solidarietà particolari, concorrenti con quello pubblico, ugualmente intesi alla tutela dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno, in attuazione dell’articolo 3, comma 2°, della Costituzione. Il reddito familiare, del resto, a seguito della sostituzione del testo dell’articolo 13 della legge numero 118 del 1971 ad opera dell’articolo 1, comma, 35 della legge numero 247 del 2007, costituisce necessario parametro di riferimento anche per la concessione dell’assegno mensile, consistendo la provvidenza in questione (vedi la recente sentenza della corte costituzionale numero 187 del 2010), in una erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito dipendente dalle condizioni soggettive della persona invalida (come aveva ritenuto con riferimento al precorso regime la giurisprudenza di questa Corte e della stessa Corte Costituzionale) ma a fornire all’invalido-allo stesso modo che la pensione di inabilità-un minimo di” sostentamento” atto ad assicurarne la sopravvivenza.

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6. Deve, in conclusione, ritenersi giuridicamente corretto l’orientamento ermeneutico seguito dalla sentenza impugnata, in base al quale, ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito reddituale per l’assegnazione della pensione di inabilità agli invalidi civili assoluti, di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 12, assume rilievo non solamente il reddito personale dell’invalido, ma anche quello (eventuale) del coniuge del medesimo, onde il benefìcio va negato quando (come accertato dai Giudici del merito nella concreta fattispecie) l’importo di tali redditi, complessivamente considerati, superi il limite determinato con i criteri indicati dalla norma in parola.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla per spese nei rapporti tra la ricorrente e l’INPS considerato che al giudizio in esame non è applicabile ” ratione temporis” l’art 152 disp. att. cpc come sostituito dall’art 42 del D.L. n 269/2003 convertito nella legge n 326/2003, per essere stato depositato l’originario ricorso prima del 2/10/2003, data di entrata in vigore della stessa disposizione

Non è invece luogo a provvedere al riguardo quanto al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che non ha svolto attività difensiva.





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