CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza n. 14085 del 26 ottobre 2000
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
INAIL, ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, omissis
ricorrente
contro
C. C. … omissis
Controricorrente
avverso la sentenza n. 231/98 del Tribunale di REGGIO EMILIA, depositata il 05/03/98 R.G.N. 1169/96;
omissis
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 31 agosto 1994 C. C. espose che suo marito G. L., che lavorava con funzioni direttive alle dipendenze della Camera del Lavoro, dopo aver prestato intensa attività (da dodici a quattordici ore al giorno) per preparare l’inaugurazione della nuova sede ed aver presenziato il 15 febbraio 1992 all’inaugurazione stessa, alle ore 19 e 30’ dello stesso giorno aveva accusato un forte dolore al petto con irradiazione alla spalla ed al braccio sinistro; e, ricoverato in ospedale, vi era poi deceduto alle ore 7 del seguente mattino; ciò premesso, e sostenendo che l’evento era stato determinato dalla frenetica e stressante attività lavorativa che egli aveva svolto nei giorni
immediatamente precedenti, ella chiese che il Pretore di Reggio Emilia in funzione di giudice del Lavoro condannasse l’ISTITUTO NAZIONALE PER
L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO (INAIL) all’adempimento delle prestazioni conseguentemente spettantile.
Attraverso prova testimoniale e parere medico legale di ufficio, il Pretore accolse la domanda.
Con sentenza del 5 marzo 1998 il Tribunale di Reggio Emilia respinse l’appello dell’INAIL affermando che attraverso la prova testimoniale era emerso che il L. nei giorni immediatamente precedenti l’inaugurazione della sede della Camera del Lavoro di Reggio Emilia, aveva lavorato con la media di dodici -quattordici ore al giorno, per organizzare le manifestazioni collaterali (un convegno sindacale ed una mostra artistica), e nel pomeriggio del 14 febbraio 1992 aveva partecipato al convegno (ove erano presenti il segretario nazionale di un sindacato confederale, autorità cittadine ed organi di stampa); nella serata aveva partecipato ad un incontro con gli artisti, rincasando a notte inoltrata; nella seguente mattinata del 15 febbraio 1992 aveva presenziato all’inaugurazione dei nuovi locali e poi all’apertura della mostra artistica; e, dopo il pranzo ufficiale, aveva accompagnato a casa un collega di lavoro, al quale aveva confidato di essere “distrutto” per l’attività compiuta, pur soddisfatto dei risultati;
2. con l’appello, l’INAIL aveva lamentato che non si fosse dato rilievo ad altri fattori di rischio (la personalità iperemotiva del L. la grave arteriosclerosi coronarica, il pregresso infarto, l’ipertensione arteriosa, il forte tabagismo, l’attività impegnativa e frenetica svolta istituzionalmente e non solo contingentemente), ed al fatto che l’evento era avvenuto presso l’abitazione del L., dopo alcune ore dalla cessazione dell’attività lavorativa, ed era stato determinato dalla lunga azione logorante, ad effetto graduale e diluito, esercitata dalle gravose e disagevoli condizioni di lavoro;
3. attraverso la consulenza tecnica di ufficio era stato accertato che concausa del decesso del L. era stata una condizione straordinaria di intenso stress psicofisico;
4. pur nella presenza di fattori di rischio (patologia coronarica, tabagismo, attività lavorativa logorante), il L. nei giorni immediatamente precedenti l’evento era stato sottoposto a condizioni lavorative di gran lunga superiori a quelle ordinarie (era significativo, al termine dei lavoro, il suo sentirsi “distrutto”); determinante causa dell’evento era stato lo stress emotivo (costituito dall’ansia di dare adeguato svolgimento alle manifestazioni, per le conseguenze che queste avrebbero avuto sull’immagine dell’organismo di cui egli era parte, sulla sua stessa personale immagine e, forse, sulle prospettive della sua carriera); e poiché il rapporto di causalità non è escluso da predisposizioni patologiche, la preesistenza degli indicati fattori di rischio era irrilevante;
5. essendo trascorse solo poche ore dalla conclusione del lavoro, il fatto che egli al momento dell’evento fosse “a riposo”, e presso la sua abitazione, era inconferente.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’INAIL, percorrendo le linee di un unico articolato motivo. A questo ricorso, notificato il 28 maggio 1998, C. C. resiste con controricorso, notificato tuttavia il 6 ottobre 1998.
Motivi della decisione
Con l’unico articolato motivo del ricorso, denunciando per l’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del dP.R. 30 giugno 1965 n. 1124, degli artt. 113, 116 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. nonché omessa ed insufficiente motivazione, l’INAIL sostiene che 1. essendo impiegato con funzioni direttive, il L. non godeva di copertura assicurativa: e questo fatto, essendo il presupposto dell’azionabilità del diritto, è eccepibile e rilevabile anche in sede di legittimità;
2. poiché l’infortunio subito dal lavoratore nello svolgimento di attività sindacale non è indennizzabile, e poiché il L. aveva lavorato per un convegno sindacale ed una mostra artistica, la stessa invocata causa dell’evento non era configurabile come attività lavorativa;
3. anche ove l’attività lavorativa “avesse avuto qualche ruolo nel determinismo causale, avrebbe agito attraverso meccanismi di stress ripetutisi nel tempo, venendo a perdere le caratteristiche di concentrazione, tipiche della causa violenta”;
4. poiché al momento dell’evento il L. era, poi, in condizione di riposo, presso la sua abitazione, la concorrenza causale di un’attività lavorativa lenta e progressiva non sarebbe stata sufficiente al legame causale con un evento verificatosi al di fuori del lavoro.
Esaminando gli aspetti nei quali il motivo si articola, è da osservare quanto segue.

1. La copertura assicurativa è presupposto del diritto alla rendita per infortunio; l’assenza di questo presupposto è pertanto rilevabile di ufficio, e, dalla parte a tanto interessata, è eccepibile per la prima volta anche in sede di legittimità. Ciò presuppone, tuttavia, che il fatto non sia stato irreversibilmente definito in sede di merito. Ed invero, ove la sentenza di primo grado abbia riconosciuto il diritto alla rendita, in tal modo implicitamente riconoscendo l’esistenza della copertura assicurativa (che ne è il presupposto), per impedire che questa esistenza diventi irreversibile giudicato è necessario che il relativo (pur implicito) accertamento sia oggetto di specifica impugnazione ad opera della parte soccombente, atteso che i poteri del giudice del gravame, in base al principio tantum devolutum quantum appellatum, sono delineati dallo spazio dell’impugnazione. In tal modo, poiché la copertura costituisce il presupposto del diritto, l’appello che contesti solo la contingente assenza di specifici elementi costitutivi del diritto, quale il rapporto dì causalità fra il lavoro e l’evento, e non contesti questo presupposto, non preclude l’irreversibile definizione del relativo accertamento, contenuto nella decisione di primo grado: e l’esistenza della copertura diventa incontestabile in sede di legittimità (per un’analoga formazione di giudicato, in diversa materia, Cass. 15 gennaio 1996 n. 275).
Nel caso in esame, l’accoglimento pretorile della domanda recava inscritta in sé l’esistenza della copertura assicurativa; e la contestazione della copertura esigeva espressa specifica impugnazione per appello; l’assenza di impugnazione, e la conseguente irreversibile definizione di questo presupposto, ne preclude l’eccepibilità in sede di legittimità.
2. Poiché il L. lavorava come dirigente alle dipendenze della Camera del Lavoro, e poiché l’attività prestata (avere, nell’ambito dell’inaugurazione della nuova sede della Camera, organizzato un convegno sindacale ed una mostra artistica, ed avere poi partecipato al convegno stesso ed all’inaugurazione dei nuovi locali ed all’apertura della mostra artistica) rientrava nello specificoambito delle sue mansioni, il secondo aspetto del motivo è infondato.
3. Sul piano normativo è da premettere che, per l’art. 2 primo comma del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124,
3.1. l’evento (determinato dalla “causa violenta”) è “la morte o l’inabilità permanente al lavoro”;
3.2. la causa (di questo evento) è ciò da cui l’evento “sia derivato”, ed è costituita da una lesione “violenta”; poiché l’infortunio non è qualificato dalla lesione bensì dal suo effetto (la morte o l’inabilità (fatti logicamente e cronologicamente distinti dalla lesione), il qualificante rilievo di questo effetto conferisce alla lesione la natura di “causa”; la “violenza” (“brusca rottura dell’equilibrio” nell’organismo del lavoratore: Cass. 14 maggio 1994 n. 4736) è il brevissimo arco temporale con cui la lesione si verifica: l’intensità del suo attuarsi;
3.3. l’attività lavorativa è il terreno causale dal quale la lesione emerge (“in occasione di lavoro”: ciò che, a sua volta, ha determinato la “causa violenta”); si esige che fra attività lavorativa e lesione sussista una connessione non solo di natura causale, bensì di contiguità “topografica” (nel tempo e nello spazio), normativamente espressa con l’occasione di lavoro” (per cui la lesione assume rilievo solo in quanto si verifica nel corso di questa attività);
3.4. “l’infortunio” è il fatto complessivo: una successione causale, costituita dall’attività lavorativa, dalla lesione (che a questa è causalmente riconducibile), e dall’evento (che la lesione a sua volta determina: morte od inabilità).
Gli elementi normativamente richiesti sono pertanto la connessione causale e topografica dell’attività lavorativa con la lesione, la “violenza” con cui questa si verifica, e l’evento che ne è il prodotto (morte od inabilità).
Nell’ambito della successione causale dell’infortunio, la causa violenta è un fattore che non si identifica con l’attività lavorativa (poiché ne è il prodotto), né con l’evento della morte o dell’inabilità (poiché ne è la causa). Essa è il baricentro non solo logico e cronologico, bensì funzionale, per il determinanterilievo che assume nella configurazione dell’infortunio.
E la sua natura violenta è ciò che differenzia l’infortunio dalla malattiaprofessionale. Anche in questa, il baricentro, della successione causale (attività lavorativa, malattia che ne discende, morte od inabilità che ne consegue) è la causa (che è costituita dalla malattia). Anche la malattia è connessa all’attività lavorativa non solo causalmente, bensì attraverso un rapporto di contiguità “topografica”. E poiché la malattia emerge attraverso un processo, che può essere anche lento ed occulto, anche questo rapporto si protrae (con lo stesso protrarsi del processo di emersione della malattia: protrazione normativamente espressa con le parole “nell’esercizio”): in tal modo la causa (costituita dalla malattia) assume natura “non violenta”.
Questa Corte ha ritenuto che nell’infortunio “la causa violenta non è configurabile in mancanza di uno sforzo – ancorché non eccezionale ed imprevedibile – nello svolgimento dell’attività lavorativa” (e plurimis, Cass. 16 gennaio 1988 n. 300). E’ da premettere che l’affermazione è il contingente prodotto di una fondamentale premessa, che è convergente con le precedenti osservazioni: “la lesione dell’organismo deve essere rapida, concentrata nel tempo” (d’altro canto, nel caso ivi esaminato è stato escluso che l’infarto integrasse infortunio sul lavoro, in quanto si era verificato “a casa, dopo due giorni di riposo”).
E’ tuttavia da ritenere che ad integrare l’infortunio sul lavoro non sia necessario lo sforzo. Ed invero, da un canto questo non è normativamente richiesto. D’altro canto, a determinare l’evento non è l’attività lavorativa in sé, bensì la lesione (fatto logicamente e cronologicamente distinto dall’attività); ed è la lesione (e non l’attività) che ha l’attributo della violenza (si pensi alla frattura del dito per l’azione di una motosega, ove la violenza non è nel movimento del dito bensì nel rapido verificarsi della lesione). In terzo luogo, l’atto lavorativo può esaurirsi anche in un azione che non esuli “dalle condizioni abituali e tipiche delle mansioni alle quali il lavoratore è addetto” (e plurimis, Cass. 14 maggio 1994 n. 4736): non è necessario che abbia intensità e peso maggiore di ciò che è normalmente necessario per lo svolgimento del lavoro.
Ciò che resta determinante è la connessione causale e topografica fra l’attività lavorativa e la lesione. Poiché ciò che è normativamente necessario è questo rapporto, la connessione non è esclusa dal contributo causale di fattori preesistenti o contestuali,, di ogni altra origine: e pertanto sussiste anche nel concorso di altre cause, anche ove queste abbiano origine interna. In tal modo, le preesistenti condizioni patologiche non escludono la connessione causale fra attività lavorativa e lesione, anche in base al principio di equivalenza previsto dall’art. 41 cod. pen. (e plurimis, Cass. 6 novembre 1995 n. 11559); principio secondo il quale deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, e per cui un ruolo di concausa deve essere attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia (e plurimis, Cass. 5 febbraio 1998 n. 1196).
Nell’ambito della causa violenta è da inquadrare l‘infarto. Questo per il suo attuarsi in un brevissimo arco temporale, ha il carattere della “violenza”; ed assume rilievo come causa di infortunio sul lavoro, ove sia legato all’attività lavorativa con una connessione causale (in quanto, anche nell’ambito di un eventuale concorso di cause, sia determinato dall’attività lavorativa) ed una contiguità topografica (in quanto si verifichi nel corso dell’attività lavorativa).
Questo contiguità è ovviamente da intendersi con l’ampiezza ed i limiti di una contiguità; ampiezza inscritta nella stessa espressione normativa (“in occasione”), che non esige una rigida assoluta contestualità: e pertanto un breve intervallo temporale fra lavoro e lesione (infarto) non esclude questa contiguità (“in occasione”), ove sia inequivocabilmente riconducibile all’attività svolta in un tempo immediatamente precedente.
L’eventuale (pur frequente) preesistenza di fattori patologici sui quali l’infarto si innesti, la sua natura “interna”, ed il suo svilupparsi con occulto processo protratto nel tempo, anche per ripetuti meccanismi di stress, pur contribuendo causalmente al suo verificarsi, non escludono che il fatto (infarto), ove sia causalmente e topograficamente connesso con l’attività lavorativa, assuma il determinante rilievo della causa violenta in occasione di lavoro.
E, poiché l’atto lavorativo può esaurirsi anche in un’azione che non esuli “dalle condizioni abituali e tipiche delle mansioni alle quali il lavoratore è addetto”, ove la morte sia stata determinata dall’infarto lo “sforzo” non è fattore necessario: l’attività lavorativa può anche rientrare nella normale quotidiana misura del lavoro. La violenza (minima misura temporale) non è dell’atto lavorativo, bensì della causa (la lesione) che determina la “morte od inabilità permanente”.
Nel caso in esame, poiché è stato accertato che concausa dell’infarto era stata una condizione straordinaria di intenso stress psicofisico, il fatto che l’attività lavorativa avesse contribuito alla determinazione della lesione attraverso un’azione “lenta e progressiva”, e con “meccanismi di stress ripetutisi nel tempo”, resta irrilevante.
4. Poiché attraverso la consulenza tecnica di ufficio era stato accertato che concausa dell’infarto era stata la situazione di stress immediatamente precedente, la breve separazione temporale e spaziale fra attività lavorativa e lesione, non escludendo la connessione causale, resta irrilevante.
Il ricorso deve essere respinto. Ed il ricorrente deve essere condannato alle spese del giudizio di legittimità.

PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità,… omissis
Così deciso in Roma, il 4 maggio 2000.

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